Tra gli interventi più apprezzati, la non violenza e il rapporto tra scienza e fede
La massima autorità buddista ha ricevuto a Roma la laurea honoris causa in Biologia
Gli studenti incontrano il Dalai Lama
“Pace e compassione, la chiave della vita”
di DANIELE SEMERARO
ROMA – “La tradizione antica che collabora con la scienza moderna: ecco la mia visione dell’insegnamento e della ricerca”. È un Dalai Lama sorridente, ma anche disorientato e forse infastidito da un eccessivo clamore, quello che si è presentato all’università di Roma Tre per ricevere la laurea honoris causa in Biologia. Gremita l’aula magna. Oltre mille giovani hanno partecipato alla cerimonia (tra loro, ma in minoranza, anche monaci tibetani e fedeli buddisti), e centinaia di studenti, docenti e ricercatori rimasti fuori si sono dovuti accontentare dei maxischermi allestiti in alcune aule della facoltà di Lettere.
Accolto con grida e tifo da stadio e decine di fotografi e operatori che non gli lasciavano nemmeno lo spazio per raggiungere la propria postazione da “candidato”, Tenzin Gyatzo, il quattordicesimo Dalai Lama, ha voluto dedicare gran parte della propria lezione magistrale agli studenti e ai giovani, ascoltando a lungo le loro domande.
Si trattava, in effetti, di un’occasione unica nel suo genere: era la prima volta che il Dalai Lama riceveva l’alto riconoscimento in una disciplina scientifica. “All’origine del conferimento della laurea honoris causa in Biologia – ha spiegato il rettore dell’ateneo, Guido Fabiani – c’è l’interesse che lei ha dimostrato per la scienza e le sue applicazioni e, in particolare, il riconoscimento per l’impegno che l’ha distinta a livello internazionale nel contribuire a tenere vivo il dialogo tra scienza e spiritualità, tra scienza e religione. Se quest’uomo non fosse diventato monaco – ha spiegato il rettore – sarebbe diventato un ottimo ingegnere”.
Tra le domande degli studenti, molte proprio sull’interesse che il Dalai Lama ha dimostrato nel dialogo tra spiritualità orientale e scienza occidentale: “Se – ha spiegato il religioso – nello studiare qualcosa troviamo che c’è ragione o prova di esso, dobbiamo accettare la validità, anche se è in contraddizione con le spiegazioni naturali delle scritture. La didattica moderna – continua, rivolgendosi agli studenti delle facoltà scientifiche – si concentra molto sulla conoscenza, sul cervello, ma trascura l’aspetto etico-morale. Per questo mi sento di lanciare un appello: pensiamo di più, insieme alla parte scientifica, a promuovere l’etica e il cuore. Solo attraverso questa via si può vedere più chiaramente la realtà. Per questo – aggiunge – serve una mente più compassionevole, più calma e con più empatia, elementi fondamentali per una vita felice”.
Temi di stretta attualità, che suscitano spesso lunghi applausi, come quando ad esempio si parla dell’etica laica: “Dobbiamo rispettare tutte le religioni e dobbiamo rispettare anche coloro che non credono. Tra religione e materialismo dovremmo sempre scegliere una terza via: una vita etica, morale, di consapevolezza. E proprio voi giovani potete contribuire a questo”.
Amerigo, studente di Ecologia, chiede al Dalai Lama: “Siamo indotti a pensare che con la morte tutto sarà finito. È vero questo? Ha il buddismo un antidoto a questa nostra convinzione? E questa esperienza è accessibile a noi giovani occidentali?”. La prima risposta, su due piedi, è: “Non lo so”. Scherza il Dalai Lama: la domanda, in effetti, era posta in modo molto complesso, mentre lui ha sempre cercato di utilizzare concetti e parole semplici. Poi si torna sui toni seri e inizia una piccola lezione sull’identità del sé: “Il concetto buddista è che corpo e anima sono collegati. Il corpo cambia durante la vita, ma tra l’io, il corpo e la mente c’è un collegamento molto stretto. La morte – aggiunge – fa parte della nostra vita. Così come tutte le tradizioni che contemplano la vita dopo la vita, il buddismo pensa che ci sia una rinascita. La morte è soltanto un cambiamento del corpo, ma non del sé”. E a chi gli domandava quale fosse la strada per raggiungere la felicità e la pace interiore, la risposta è quella più semplice: “La fede in Dio, chiunque esso sia. La religione allevia la sofferenza e dà speranza”.
“Il buddismo – chiede Elena, studentessa di Cinema – ci insegna che tutti i problemi provengono dalla mente. Nonostante questo, siamo circondati da situazioni esterne come la guerra, la povertà e le discriminazioni sociali, che causano sofferenza. Come possiamo conciliare queste due idee?”. “È vero – risponde il Dalai Lama – tutta la sofferenza proviene dalla mente. Pensiamo ad esempio al terrorismo: questo proviene dall’odio, e il problema si trova nella nostra mente. L’inquinamento, ancora, proviene dal riscaldamento dell’atmosfera, che proviene dall’avidità, anch’essa nella nostra mente. Alla base di tutto questo – continua – vi è l’ignoranza: sviluppiamo il cervello! L’ignoranza si ridurrà e queste sofferenze non si verificheranno più. E poi aggiungo: per odio e avidità l’antidoto è la tolleranza. Cerchiamo di essere più compassionevoli, contribuiremo a ridurre i problemi”.
“Giovani, non aspettatevi troppo”, risponde poi sorridente a Viola, studentessa di lettere, che gli ha posto una domanda sulla possibilità dei giovani occidentali di comprendere profondamente il sé, così come i tibetani: “Non tutti i problemi del male possono essere risolti con la tradizione tibetana. Per questo – continua – ai giovani italiani dico: dovete trovare la risposta ai vostri problemi secondo la vostra tradizione. Cercare altrove non serve”. E poi, scherzando: “Se i problemi sono vostri, ve li dovete risolvere da soli”.
Il momento più commovente della cerimonia è sicuramente l’ultima domanda, quella posta da Diki, una studentessa tibetana che da sei anni vive in Italia. Dopo essersi laureata all’università di Trento con una tesi sui tibetani in esilio, si sta specializzando a Roma sui diritti delle minoranze. Commossa e con la voce che trema, chiede: “La politica del Dalai Lama è quella della non violenza. Pensando al Tibet e alla Cina, che cosa può fare il Dalai Lama per aiutare un popolo oppresso che sta soffrendo?”. Scrosciano gli applausi, tanti in sala espongono bandiere e striscioni inneggianti al Tibet libero dall’oppressione cinese che dura da più di 47 anni e a causa della quale hanno perso la vita oltre un milione di tibetani.
Il Dalai Lama, capo del governo tibetano in esilio e premio nobel per la Pace nel 1989, risponde con molta franchezza: “Apprezzo molto la preoccupazione per il destino dei tibetani. La nostra lotta è basata su una rigorosa non violenza e sul pensiero compassionevole, per questo tendiamo a minimizzare i sentimenti negativi nei confronti dei cinesi. Un mio vecchio amico che ha trascorso 18 anni nei gulag cinesi è venuto da me e mi ha detto di aver visto poche occasioni di pericolo. Tra queste, gli ho chiesto, quali? E lui: ‘Il rischio di perdere la compassione verso i cinesi’. Vedete – aggiunge – il fondamento del nostro pensiero è di considerarli fratelli, anche se continuano a fare male al nostro popolo, questo è il puro significato della non violenza. Noi i problemi con la Cina vogliamo risolverli, ma per fare questo la Cina ci deve dare autonomia, dobbiamo poter preservare la nostra cultura e la nostra lingua. Se la Cina – conclude – vuole essere una superpotenza rispettata a livello mondiale, b
asta con le mistificazioni della realtà, gli attacchi alla libertà personale e alla libertà di stampa: la Cina dev’essere ragionevole. E non riusciamo a capire perché, a queste nostre domande, la Cina non risponde in maniera favorevole”.
(14 ottobre 2006)
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