Daniele Semeraro

Giornalista

Napolitano, ecco il testo integrale del discorso d'insediamento



Signor Presidente,
onorevoli deputati,
onorevoli senatori,
signori rappresentanti delle Regioni d’Italia,
è con profonda emozione che mi rivolgo a voi in quest’Aula nella quale ho speso tanta parte del mio impegno pubblico, apprendendo dal vivo il senso e il valore delle istituzioni rappresentative, supremo fondamento della democrazia repubblicana. Sono le assemblee elettive, è innanzitutto il Parlamento, il luogo del confronto sui problemi del paese, della dialettica delle idee e delle proposte, della ricerca delle soluzioni più valide e condivise.

La nuova legislatura si è aperta nel segno di un forte travaglio, a conclusione di un’aspra competizione elettorale, dalla quale gli opposti schieramenti politici sono emersi entrambi largamente rappresentativi del corpo elettorale. L’assunzione delle responsabilità di governo da parte dello schieramento che è sia pur lievemente prevalso rappresenta l’espressione naturale del principio maggioritario che l’Italia ha assunto da quasi un quindicennio come regolatore di una democrazia dell’alternanza realmente operante.

Ma in tali condizioni più chiara appare l’esigenza di una seria riflessione sul modo di intendere e coltivare in un sistema politico bipolare i rapporti tra maggioranza e opposizione. Non si tratta di tornare indietro rispetto all’evoluzione che la democrazia italiana ha conosciuto grazie allo stimolo e al contributo di forze di diverso orientamento.

Ma il fatto che si sia instaurato un clima di pura contrapposizione e di incomunicabilità, a scapito della ricerca di possibili terreni di impegno comune, deve considerarsi segno di un’ancora insufficiente maturazione nel nostro paese del modello di rapporti politici e istituzionali già consolidatosi nelle altre democrazie occidentali.

Ebbene, è venuto il tempo della maturità per la democrazia dell’alternanza anche in Italia. Il reciproco riconoscimento, rispetto ed ascolto tra gli opposti schieramenti, il confrontarsi con dignità in Parlamento e nelle altre assemblee elettive, l’individuare i temi di necessaria e possibile limpida convergenza nell’interesse generale, possono non già mettere in forse ma, al contrario, rafforzare in modo decisivo il nuovo corso della vita politica e istituzionale avviatosi con la riforma del 1993 e le elezioni del 1994. Ciò potrà avvenire solo ad opera delle forze politiche organizzate e delle loro rappresentanze nelle istituzioni rappresentative, sorrette dalla consapevolezza e dal dinamismo della società civile.

A chi vi parla, chiamato a rappresentare l’unità nazionale, spetta semplicemente trasmettere oggi un messaggio di fiducia, in risposta al bisogno di serenità e di equilibrio fattosi così acuto e diffuso tra gli italiani. Sono convinto che la politica possa recuperare il suo posto fondamentale e insostituibile nella vita del paese e nella coscienza dei cittadini. Può riuscirvi quanto più rifugga da esasperazioni e immeschinimenti che ne indeboliscono fatalmente la forza di attrazione e persuasione, e quanto più esprima moralità e cultura, arricchendosi di nuove motivazioni ideali.

Tra esse, quella del costruire basi comuni di memoria e identità condivisa, come fattore vitale di continuità nel fisiologico succedersi di diverse alleanze politiche nel governo del paese. Ma non si può dare memoria e identità condivisa, se non si ripercorre e si ricompone in spirito di verità la storia della nostra Repubblica nata sessanta anni fa come culmine della tormentata esperienza dello Stato unitario e, prima ancora, del processo risorgimentale.

Ci si può – io credo – ormai ritrovare, superando vecchie laceranti divisioni, nel riconoscimento del significato e del decisivo apporto della Resistenza, pur senza ignorare zone d’ombra, eccessi e aberrazioni. Ci si può ritrovare – senza riaprire le ferite del passato – nel rispetto di tutte le vittime e nell’omaggio non rituale alla liberazione dal nazifascismo come riconquista dell’indipendenza e della dignità della patria italiana. Memoria condivisa, come premessa di una comune identità nazionale, che abbia il suo fondamento nei valori della Costituzione. Il richiamo a quei valori trae forza dalla loro vitalità, che resiste, intatta, ad ogni controversia. Parlo – ed è giusto farlo anche nel celebrare il sessantesimo anniversario dell’elezione dell’Assemblea Costituente – di quei “principi fondamentali” che scolpirono nei primi articoli della Carta Costituzionale il volto della Repubblica. Principi, valori, indirizzi che scritti ieri sono aperti a raccogliere oggi nuove realtà e nuove istanze.

Così, il valore del lavoro, come base della Repubblica democratica, chiama più che mai al riconoscimento concreto del diritto al lavoro, ancora lontano dal realizzarsi per tutti, e alla tutela del lavoro “in tutte le sue forme e applicazioni”, e dunque anche nelle forme ora esposte alla precarietà e alla mancanza di garanzie. I diritti inviolabili dell’uomo e il principio di uguaglianza, “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione”, si integrano e completano nella Carta europea, aperta ai nuovi diritti civili e sociali. Essi non possono non riconoscersi a uomini e donne che entrano a far parte, da immigrati, della nostra comunità nazionale contribuendo alla sua prosperità. Il valore della centralità della persona umana viene a misurarsi con le nuove frontiere della bioetica.

L’unità e indivisibilità della Repubblica si è via via intrecciata col più ampio riconoscimento dell’autonomia e del ruolo dei poteri regionali e locali. Si rivela lungimirante come fattore di ricchezza e apertura della nostra comunità nazionale la tutela delle minoranze linguistiche. Essenziale appare tuttora il laico disegno dei rapporti tra Stato e Chiesa, concepiti come, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.

La libertà e il pluralismo delle confessioni religiose sono state via via sancite, e ancora dovranno esserlo, attraverso intese promosse dallo Stato. Presentano poi una pregnanza ed urgenza senza precedenti, tanto lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica, quanto la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. Infine, i valori, tra loro inscindibili, del ripudio della guerra e della corresponsabilità internazionale per assicurare la pace e la giustizia nel mondo, si confrontano con nuove, complesse e dure prove. Ebbene – Signor Presidente, onorevoli parlamentari, signori delegati regionali – chi può mettere in dubbio la straordinaria sapienza, e rispondenza al bene comune, dei principi e valori costituzionali che ho voluto puntualmente ripercorrere? In questo senso, è giusto parlare di unità costituzionale come sostrato dell’unità nazionale.

Un risoluto ancoraggio ai lineamenti essenziali della Costituzione del 1948 non può essere scambiato per puro conservatorismo. I costituenti si pronunciarono a tutte lettere per una Costituzione “destinata a durare”, per una Costituzione rigida ma non immutabile, e definirono le procedure e garanzie per la sua revisione. Nei progetti volti a rivedere la seconda parte della Costituzione che si sono via via succeduti, non sono stati mai messi in questione i suoi principi fondamentali.

Ma già nell’Assemblea Costituente si espresse – nello scegliere il modello della Repubblica parlamentare – la preoccupazione di “tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e di evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. Quella questione rimase aperta e altre ne sono insorte in anni più recenti, anche sotto il profilo del ruolo dell’opposizione e del sistema delle garanzie, in rapporto ai mutamenti intervenuti nella legislazione elettorale.

La legge di revisione costituzionale approvata dal Parlamento mesi or sono è ora affidata al giudizio con
clusivo del popolo sovrano; si dovrà comunque verificare poi la possibilità di nuove proposte di riforma capaci di raccogliere il necessario largo consenso in Parlamento. Esprimo il più sentito e convinto omaggio al mio predecessore Carlo Azeglio Ciampi per l’esemplare svolgimento del suo mandato, e in special modo per l’impulso a una più forte affermazione dell’identità nazionale italiana e di un rinnovato sentimento patriottico.

Nello stesso tempo, nessun ripiegamento entro confini e orizzonti anacronistici. Come già si disse, precorrendo i tempi, all’Assemblea Costituente, l’Europa è per noi italiani una seconda patria. Lo è diventata sempre di più nei quasi cinquant’anni che ci separano da quei Trattati di Roma che portano la firma, per l’Italia, di Antonio Segni e di Gaetano Martino: e il cammino dell’integrazione e costruzione europea cominciò ancor prima, ispirato dalle profetiche intuizioni di Benedetto Croce e di Luigi Einaudi, guidato dall’incontro tra i diversissimi apporti di personalità come Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli, lo statista lungimirante e il paladino del movimento federalista, entrambi né meschinamente realisti né astrattamente utopisti. La crisi che da un anno ha investito l’Unione europea non può in alcun modo oscurare il cammino compiuto e far liquidare il grande progetto della costruzione comunitaria come riflesso di una fase storica, quella del continente diviso in due blocchi contrapposti, conclusasi nel 1989.

In effetti non solo si è portata a compimento la più grande impresa di pace del secolo scorso nel cuore dell’Europa, non solo si è realizzato uno straordinario e duraturo avanzamento economico e sociale, civile e culturale nei paesi che si sono via via associati al progetto, ma si sono poste le radici di un irreversibile moto di avvicinamento e integrazione tra i popoli, le realtà produttive, i sistemi monetari, le culture, le società, i cittadini, i giovani delle nazioni europee.

Non potranno arrestare questo processo le difficoltà pur gravi incontrate dall’iter di ratifica del Trattato costituzionale: l’Italia – dopo che il suo governo e il suo Parlamento hanno tra i primi provveduto alla ratifica di quel Trattato – è fortemente interessata e impegnata a creare le condizioni per l’entrata in vigore di un testo di autentica rilevanza costituzionale.

Ci inducono a riflettere ma non potranno fermarci i fenomeni di disincanto e di incertezza indotti nelle opinioni pubbliche da un serio rallentamento della crescita dell’economia e del benessere, da un palese affanno nel far fronte sia alle sfide della competizione globale e del cambiamento di pesi e di equilibri nella realtà mondiale, sia alle stesse prove dell’allargamento dell’Unione. Di certo non esiste dinanzi a queste sfide alcuna alternativa al rilancio della costruzione europea.

L’Italia solo come parte attiva della costruzione di un più forte e dinamico soggetto europeo, e l’Europa solo attraverso l’unione delle sue forze e il potenziamento della sua capacità d’azione, potranno giuocare un ruolo effettivo, autonomo, peculiare nell’affermazione di un nuovo ordine internazionale di pace e di giustizia. Un ordine di pace nel quale possa espandersi la democrazia e prevalere la causa dei diritti umani, e insieme assicurarsi un governo dello sviluppo che contribuisca a scongiurare tensioni e rischi di guerra, e ponga un argine all’intollerabile, allarmante aggravarsi delle disuguaglianze a danno dei paesi più poveri, dei popoli colpiti da ogni flagello come quelli del continente africano.

La strada maestra per l’Italia resta dunque quella dell’impegno europeistico, come il Presidente Ciampi ha in questi anni appassionatamente indicato. E in ciò egli ha incontrato, io credo, il sentire profondo ormai maturato soprattutto nelle nostre giovani generazioni, il cui animo italiano fa tutt’uno con l’animo europeo, e che non vedono avvenire se non nell’Europa. La priorità dell’impegno europeistico nulla toglie alla profondità dell’adesione dell’Italia a una visione dei rapporti transatlantici, dei suoi storici legami con gli Stati Uniti d’America e delle relazioni tra Europa e Stati Uniti, come cardine di una strategia di alleanze, nella libera ricerca di approcci comuni ai problemi più controversi e nella pari dignità.

È in tale contesto che va affrontata senza esitazioni e ambiguità la minaccia così dura, inquietante e per tanti aspetti nuova, del terrorismo di matrice fondamentalista islamica, senza mai offrire a questo insidioso nemico il vantaggio di una nostra qualsiasi concessione alla logica dello scontro di civiltà, di una nostra rinuncia al principio e al metodo del dialogo tra storie, culture e religioni diverse. Non è illusorio pensare che questa cornice degli orientamenti di politica internazionale dell’Italia possa essere condivisa dagli opposti schieramenti politici.

Entro questa cornice spetta al governo e al Parlamento indicare iniziative atte a contribuire al dialogo e al negoziato tra Israele e l’Autorità palestinese nel pieno riconoscimento del diritto dello Stato di Israele a vivere in sicurezza e del diritto del popolo palestinese a darsi uno Stato indipendente. Ed è ora di mettere al bando l’arma del terrorismo suicida e di contrastare fermamente ogni rigurgito di antisemitismo. Si impongono egualmente iniziative volte alla soluzione della ancora aperta e sanguinosa crisi in Iraq, alla stabilizzazione del processo democratico in Afghanistan, alla ricerca di uno sbocco positivo per lo stato di preoccupante tensione con l’Iran.

Più specificamente, compete al governo e al Parlamento definire le soluzioni per il rientro dei militari italiani dall’Iraq. Oggi, non può che accomunare quest’Assemblea l’omaggio riverente e commosso a tutti i nostri caduti, che hanno rappresentato il prezzo così doloroso di missioni all’estero assolte con dedizione e onore, qualunque sia stato il grado di consenso nel deliberarle.

Onorevoli parlamentari, signori delegati regionali, se rivolgo ora lo sguardo dal cruciale orizzonte europeo allo stato del nostro paese e al quadro delle nostre dirette responsabilità, posso solo consentirmi brevi considerazioni, senza affacciarmi in un campo che è, più di ogni altro, proprio del confronto tra diverse impostazioni e posizioni politiche. Posso, anche qui, esprimere solo un messaggio di fiducia, senza indulgere a diagnosi pessimiste sull’inevitabile declino del nostro sistema economico e finanziario, ma nemmeno sottovalutando la gravità delle debolezze da superare e dei nodi da sciogliere. Il nodo – innanzitutto – del debito pubblico. E insieme, le debolezze del sistema produttivo.

Le imprese italiane hanno mostrato di saper raccogliere la sfida che viene dall’operare in un mercato aperto e in libera concorrenza e di volersi impegnare in un serio sforzo per la crescita, l’innovazione e l’internazionalizzazione. Esse chiedono allo Stato non di introdurre o mantenere indebite protezioni, ma di favorire la competitività del sistema e gli investimenti privati e pubblici, nonché di riprendere quel processo di sviluppo infrastrutturale che tanta parte ebbe nella crescita del secondo dopoguerra. Ma all’esigenza di rimuovere limiti e vincoli ingiustificati, si accompagna quella di assicurare regole e controlli efficaci ed efficienti.

Il nostro paese non può rinunciare alle sue grandi tradizioni in campo industriale e agricolo, che ancora si esprimono in rilevanti prove di progresso anche tecnologico: tali da dar luogo di recente a casi di straordinario recupero in gravi situazioni di crisi e da animare nuove, vitali realtà produttive. Nello stesso tempo, appare indispensabile rafforzare e modernizzare il settore dei servizi, e valorizzare con coraggio e lungimiranza il patrimonio naturale e paesaggistico, culturale e artistico senza eguali di cui l’Italia dispone.

Di qui passa anche qualsiasi politica per il Mezzogiorno, le cui regioni diventano un asse obbligato del rilancio complessivo dello sviluppo nazionale anche per
la loro valenza strategica nella nuova grande prospettiva dei flussi di investimenti e di scambi tra l’area euromediterranea e l’Asia. Né occorre che io aggiunga altro a questo proposito, signori parlamentari e delegati regionali, per la profondità delle radici e delle esperienze politiche e di vita che mi legano al Mezzogiorno: non occorrono altre parole per affidarvi un auspicio così intimamente sentito.

Sono più in generale le mie complessive esperienze politiche e di vita che mi inducono ad associare con forza il problema del rilancio della nostra economia a quello della giustizia sociale, della lotta contro le accresciute disuguaglianze e le nuove emarginazioni e povertà, dell’impegno più conseguente per elevare l’occupazione e il livello di attività della popolazione, il problema non eludibile del miglioramento delle condizioni dei lavoratori e dei pensionati e di una rinnovata garanzia della dignità e della sicurezza del lavoro. C’è bisogno di più giustizia e coesione sociale.

E se un ruolo decisivo spetta in questo senso ai sindacati, posti peraltro di fronte a un mercato del lavoro in profondo cambiamento che richiede forti aperture all’innovazione, è interesse e responsabilità anche delle forze imprenditoriali comprendere e assecondare politiche di coesione e di solidarietà. Quando ci domandiamo – dinanzi a problemi così complessi e a vincoli così pesanti – se possiamo farcela, dobbiamo guardare alle risorse di cui dispone l’Italia. Sono le risorse delle istituzioni regionali e locali che esercitano le loro autonomie in responsabile e leale collaborazione con lo Stato e contando sull’impegno unitario della pubblica amministrazione al servizio esclusivo della nazione.

Sono, insieme, le risorse di un ricco tessuto civile e culturale, da cui si sprigiona un potenziale prezioso di sussidiarietà, per l’apporto di cui si è mostrato e si mostra capace il mondo delle comunità intermedie, dell’associazionismo laico e religioso, del volontariato e degli enti non profit. Sono le risorse della partecipazione di base, che le istituzioni locali tanto possono stimolare e canalizzare. E sono le risorse delle famiglie: come quelle che abbiamo visto in queste settimane stringersi attorno alle spoglie dei caduti di Nassirya e di Kabul.

Famiglie laboriose e modeste che educano i loro figli al senso del dovere verso la patria e verso la società. Famiglie che rappresentano la più grande ricchezza dell’Italia. E ancora, abbiamo da contare – mi si lasci ricordare la splendida figura di Nilde Iotti – sulle formidabili risorse delle energie femminili non mobilitate e non valorizzate né nel lavoro né nella vita pubblica: pregiudizi e chiusure, con l’enorme spreco che ne consegue, ormai non più tollerabili.

Contiamo infine sulle risorse che possono essere attribuite ai giovani, uomini e donne in formazione, da un sistema di istruzione che fino al più alto livello offra a tutti uguali opportunità di sviluppo della persona, e premi il merito e la dedizione allo studio e al lavoro. Da tutto ciò le ragioni di una non retorica fiducia nel futuro del nostro paese. Il nostro futuro tuttavia è legato anche a problemi come quelli che ormai si collocano nel grande scenario dello spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia.

Resta assai dura la sfida della lotta contro la criminalità, una presenza aggressiva che ancora tanto pesa sulle possibilità di sviluppo del Mezzogiorno, così come contro le nuove minacce del terrorismo internazionale e interno. Ci dà però fiducia il fatto che lo Stato ha mostrato anche negli ultimi anni di poter contare sull’azione efficace e congiunta della magistratura e delle forze dell’ordine, alle quali tutte – avendo io stesso, da responsabilità di governo, imparato a meglio conoscerne e apprezzarne l’impegno e lo slancio – desidero indirizzare il più vivo nostro riconoscimento.

Certo, i problemi della legalità e della moralità collettiva si presentano ancora aperti in modi inquietanti e anche in ambiti che avremmo sperato ne restassero immuni. Mentre sono purtroppo rimaste critiche le condizioni dell’amministrazione della giustizia, soprattutto sotto il profilo della durata del processo.

E troppe tensioni circondano ancora i rapporti tra politica e giustizia, turbando lo svolgimento di una così alta funzione costituzionale e ferendo la dignità di coloro che sono chiamati ad assolverla. Anche in questo delicatissimo campo, sono esigenze di serenità e di equilibrio, negli stessi necessari processi di riforma, quelle che si avvertono e chiedono di essere soddisfatte. Seri e complessi sono dunque gli impegni cui debbono far fronte la politica e le istituzioni.

L’Italia vive un momento difficile: ma drammatico, non solo difficile, fu il periodo che l’Italia visse negli anni successivi alla fine della guerra e alla Liberazione, dovendo accollarsi un’eredità di terribili distruzioni materiali e morali e superare anche le scosse di un conflitto elettorale e ideale come quello che divise in due il paese nella scelta tra monarchia e repubblica. Prevalse allora – la prova più alta la diede l’Assemblea Costituente – ed ebbe ragione di tutte le difficoltà il senso della missione nazionale comune : che fu più forte di pur legittimi contrasti ideologici e politici.

Così, oggi, il mio appello all’unità non tende a edulcorare una realtà di aspre divergenze soprattutto ai vertici della politica nazionale, ma proprio a sollecitare tra gli italiani un nuovo senso della missione da adempiere per dare slancio e coesione alla nostra società, per assicurare al nostro paese il ruolo che gli spetta in Europa e nel mondo. Ed è un appello che può forse trovare maggiore rispondenza in quell’Italia profonda, l’Italia delle cento province, l’Italia della fatica quotidiana e della volontà di progredire, che il mio predecessore ha voluto esplorare traendone l’immagine di una concordia di intenti e di opere più salda di quanto comunemente si ritenga. Considero mio dovere impegnarmi per favorire più pacati confronti tra le forze politiche e più ampie, costruttive convergenze nel paese ; ma è un impegno che svolgerò con la necessaria sobrietà e nel rigoroso rispetto dei limiti che segnano il ruolo e i poteri del Presidente della Repubblica nella Costituzione vigente.

Un ruolo di garanzia dei valori e degli equilibri costituzionali; un ruolo di moderazione e persuasione morale, che ha per presupposto il senso e il dovere dell’imparzialità nell’esercizio di tutte le funzioni attribuite al Presidente. Come rappresentante dell’unità nazionale, raccolgo il riferimento ben presente nel messaggio augurale indirizzatomi dal Pontefice Benedetto XVI – al quale rivolgo il mio deferente ringraziamento e saluto: raccolgo il riferimento ai valori umani e cristiani che sono patrimonio del popolo italiano, ben sapendo quale sia stato il profondo rapporto storico tra la cristianità e il farsi dell’Europa.

E ne traggo la convinzione che debba laicamente riconoscersi la dimensione sociale e pubblica del fatto religioso, e svilupparsi concretamente la collaborazione, in Italia, tra Stato e Chiesa cattolica in molteplici campi in nome del bene comune. Nel momento in cui inizia il suo mandato, il Presidente della Repubblica rende omaggio alla Corte Costituzionale, come organo di alta garanzia che da cinquant’anni veglia sul pieno rispetto della nostra legge fondamentale; al Consiglio Superiore della Magistratura, espressione e presidio dell’autonomia e indipendenza di quell’ordine da ogni altro potere; a tutte le amministrazioni pubbliche, a tutti gli organi e i corpi dello Stato, e in particolare alle Forze Armate italiane che si distinguono per sempre più alti livelli di moderna professionalità ed efficienza, così come alle diverse e distinte forze preposte con convergente impegno alla tutela del bene essenziale della sicurezza dei cittadini. Un segno di particolare attenzione va al mondo della scuola e dell’Università e a quanti sono chiamati a tenerne alta la funzione educativa. < br />
Al mondo dell’informazione va indirizzato un convinto impegno a garantirne la libertà e il pluralismo come condizione imprescindibile di democrazia. Rivolgo un grato e rispettoso pensiero a tutti i miei predecessori, personalità rappresentative di diverse correnti ideali e tradizioni popolari, ritrovatesi nel primato dei valori essenziali: libertà, giustizia, solidarietà.

Uno speciale ricordo per il primo Presidente della Repubblica Enrico De Nicola, che fu simbolo di pacificazione in un contrastato passaggio storico e al quale fui legato da rapporti di antica amicizia famigliare e dal comune impegno, in diverse epoche, a rappresentare in Parlamento la nostra grande, generosa e travagliata città di Napoli. Signor Presidente, onorevoli parlamentari, signori delegati, mi inchino dinanzi a questa Assemblea nella quale si riconoscono tutti gli italiani, per la prima volta anche quelli che operano all’estero, le cui comunità hanno finalmente voce per far sentire le loro esigenze ed attese.

Non sarò in alcun momento il Presidente solo della maggioranza che mi ha eletto; avrò attenzione e rispetto per tutti voi, per tutte le posizioni ideali e politiche che esprimete; dedicherò senza risparmio le mie energie all’interesse generale per poter contare sulla fiducia dei rappresentanti del popolo e dei cittadini italiani senza distinzione di parte.
Viva il Parlamento!
Viva la Repubblica!
Viva l’Italia!

(15 maggio 2006)


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