Due opinioni sullo sciopero di domani firmate Ezio Mauro e Fiorenza Sarzanini:
“Domani non usciranno i quotidiani, taceranno i notiziari televisivi e radiofonici per lo sciopero nazionale dei giornalisti contro la “legge bavaglio”. Può sembrare una contraddizione davanti ad una legge che limita la libertà d’informazione, firmata da un Premier che invita i lettori a scioperare contro i quotidiani. In realtà è un gesto di responsabilità dei giornalisti italiani per denunciare il governo e richiamare l’attenzione di tutti i cittadini sulla gravità di una norma che colpisce insieme la tutela della legalità, il contrasto al crimine e la libera e trasparente circolazione delle notizie.
Non si tratta di uno sciopero corporativo, ma di una protesta a tutela dei cittadini, cui la legge nega il diritto di essere liberamente informati, cioè di conoscere e di sapere, e dunque di rendersi consapevoli e di giudicare a ragion veduta. A questo diritto fondamentale, corrisponde il dovere dei giornali di dare tutte le notizie utili ai lettori, con un autonomo e libero lavoro di ricerca, selezione e gerarchia delle informazioni, che viene giudicato ogni giorno dal mercato.
Questo sciopero è anche l’unico modo, in uno sfortunato Paese di improprio monopolio televisivo, per portare a conoscenza del pubblico delle televisioni ciò che sta avvenendo nel circuito tra il potere, la giustizia, l’informazione e la pubblica opinione: e cioè il tentativo con la legge di ostruire questo circuito, perché i magistrati che indagano vengano limitati nel loro lavoro di ricerca delle prove, i giornalisti che informano debbano tacere, e i cittadini che possono giudicare rimangano al buio. Di questo, i telegiornali di corte non parlano: per un giorno il black out televisivo parlerà per loro, e i telespettatori sapranno finalmente che c’è un problema, e li riguarda.
Ezio Mauro (direttore “la Repubblica”, 8 luglio 2010)
Una giornata di silenzio che in realtà serve a parlare. Una giornata senza radio, televisioni, giornali e siti Internet per far sì che siano i cittadini a rivendicare il proprio diritto a essere informati. Perché la protesta indetta dalla Federazione nazionale della stampa non è la difesa corporativa dei giornalisti, ma il grido di allarme di chi si preoccupa per gli effetti che avrà la nuova legge sulle intercettazioni: limiti forti alla possibilità di diffondere notizie; di fare informazione.
Decine di parlamentari, non soltanto dell’opposizione, si sono espressi sui rischi delle nuove norme. Ma è stato soprattutto il presidente della Repubblica, fatto non usuale, ad evidenziare più volte le «criticità» del provvedimento che riscrive le regole per imagistrati ancor prima di quelle per la stampa. Sullo sfondo rimane lo scontro politico che di fatto sta trasformando questa legge in un trofeo per uno degli schieramenti – ormai trasversali – che riuscirà a farla approvare oppure a farla finire su un binario morto.
Si parla di intercettazioni, ma quello che riguarda le conversazioni telefoniche e ambientali è soltanto uno dei tanti divieti di pubblicazione. Nessun colloquio registrato potrà mai più essere reso noto fino alla celebrazione del processo, così come gli atti di indagine anche non più segreti, perché ormai conosciuti dalle parti. «Bisogna salvaguardare la privacy dei cittadini », ripetono i sostenitori della legge. Principio sacrosanto, è vero, ma che va salvaguardato senza intaccare il diritto-dovere dell’informazione.
La scelta di imporre ai giornalisti di poter soltanto riassumere le carte processuali in realtà aumenta il pericolo che il contenuto di ogni documento possa essere riportato in termini lacunosi o strumentali. E priva persino gli indagati o gli arrestati della possibilità di utilizzare, per far valere le proprie ragioni, quanto affermato dal giudice o dalla pubblica accusa. Almeno fino al dibattimento. In quella sede la privacy evidentemente non si deve più tutelare, visto che anche le intercettazioni potranno comunque diventare pubbliche.
La corsa all’approvazione della legge, con la possibilità che si proroghino addirittura le sedute della Camera fino a metà agosto come se ci si trovasse di fronte ad un’emergenza, non sembra giustificata. A questo punto dovrebbe essere la stessa maggioranza, di fronte a una mobilitazione forte e a un dibattito politico tanto acceso, a comprendere che il momento di fermarsi è ormai arrivato. Nessuno deve avere paura delle regole, tantomeno i giornalisti. Ma questo non può trasformarsi in una limitazione o addirittura in una censura preventiva. Esistono già leggi che puniscono gli abusi, anche per quanto attiene agli aspetti deontologici. Nulla vieta che si possano cambiare in alcune parti per renderle ancora più efficaci. Tenendo però sempre presente che conoscere quanto sta accadendo è un diritto primario dei cittadini. Il diritto alla riservatezza e il diritto di cronaca possono convivere, come avviene in tante altre democrazie. Perché da noi no?
Fiorenza Sarzanini (editorialista “Il Corriere della Sera”, 8 luglio 2010)
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